Operazione Corsaro (1952/1953)

Fra il materiale storico disponibile presso la sede dell’Adriatica, sono visionabili alcuni fogli scritti personalmente da Walter Maucci, relativi alla spedizione denominata “Operazione Corsaro”, riguardante le immersioni fatte negli anni 1952/1953 per il raggiungimento della Caverna Boegan, lungo il corso sotterraneo del fiume Timavo.
Queste brevi pagine, anche se incomplete, riportano sia  la  descrizione delle varie attività intraprese, sia le sensazioni vissute personalmente da Maucci, descritte con uno stile diretto e coinvolgente.

Due cose emergono chiaramente da quelle relazioni: le enormi difficoltà affrontate e superate, e le molte occasioni nelle quali si è sfiorata la tragedia. Che le esplorazioni speleosubacquee siano ancora oggi un’attività ad alto rischio è universalmente risaputo, ma per quanto riguarda le immersioni avviate dalla SAS negli anni 1952-1953 si può parlare di vere e proprie imprese pionieristiche.

La prima cosa da sottolineare è, sicuramente, la quasi completa mancanza di visibilità che ha caratterizzato tutte le immersioni. Scrive Maucci a proposito di una delle prime discese nell’abisso di Trebiciano:

“Naturalmente anche questa volta non vedevo la roccia, bensì soltanto l’opaca parete d’acqua che appariva biancastra alla luce della lampada. Quando alzavo le braccia (la torcia era fissata al palmo della mano sinistra) l’acqua si faceva grigia e poi nera, ma quel buio non riusciva ad essere più opaco della luce. Per quanto riguarda la visibilità, avremmo potuto fare a meno delle lampade. Se le usavamo era per un motivo essenzialmente psicologico: è più tranquillante nuotare nel bianco che nel nero”.

Più avanti, proseguendo nella descrizione, Maucci precisa ulteriormente:

 “Anche qui la parete rientrava su se stessa, ed io mi trovai ancora a procedere a tastoni sotto il soffitto di roccia, in quell’acqua lattiginosa e opaca… Mi avvedo che sto insistendo troppo su questi aggettivi, ma non riesco a staccarmene: quella disperata sensazione di cecità impotente era l’impressione più sconcertante della nostra esperienza, ed è tuttora il ricordo più vivo e sinistro, tinto di colori d’incubo. Vorrei trovare altre parole per  descriverlo, ma è impossibile rendere appieno la nostra sensazione: quando mi trovavo sommerso in quell’acqua, era come entrare in un altro mondo, mostruosamente irreale, in cui tutti i cinque sensi facevano difetto, un mondo cieco e pur luminoso, assolutamente silenzioso, privo di gravità, in cui non esisteva nulla, assolutamente nulla. Tutto l’ambiente, in seguito all’impossibilità di percezioni sicure, perdeva i suoi particolari e si concentrava in un mondo, direi, interiore, vero soltanto nelle psicologiche reminiscenze della mia mente, spasmodicamente tesa in uno sforzo di penetrare l’invisibile, e di realizzare immagini e sensazioni puramente soggettive”.

Durante le varie uscite vi furono sicuramente dei momenti in cui venne rasentata la disgrazia, come in occasione di una perlustrazione preliminare per la ricerca dell’imbocco del sifone, durante la quale Maucci perse i sensi per qualche minuto.
La sua descrizione di quei momenti è però curiosamente lucida e precisa:

“Basta! Basta! – urlava qualcosa dentro di me. L’urlo silenzioso mi rintronava nella mente angosciata, con suono disperato. Mi riprese il panico, freddo e violento. Lasciai la fune che mi si aggrovigliava intorno e mi agitai verso l’uscita. I miei movimenti non erano più coordinati: sbattei contro la roccia, mi girai e rigirai fino a perdere ogni nozione della mia posizione, non sapevo più da che parte andare. Le braccia contratte brancolavano, gli occhi si perdevano nella nebbia, sentivo distintamente il biancore vuoto invadermi la mente, che sfuggiva ad ogni controllo. Mi sentivo mancare, sapevo di perdere i sensi ed ogni percezione andava svanendo. Sapevo di dover morire. Nella morsa della cecità biancastra mi sentivo invischiato, legato da mille funi, impotente, desolatamente impotente…”.

Anche durante la fase di ritorno dopo il primo superamento del sifone del fiume Timavo vi furono grandi difficoltà, in quanto si spezzò la sagola che collegava Maucci ai suoi compagni. Privo di guida, lo speleosub si infilò in diramazioni secondarie e questi sono stati i suoi pensieri, così come trascritti nel manoscritto:

“Evidentemente quel corridoio sommerso che avevo fiduciosamente seguito, anziché portarmi in salvo – ed io non ne avevo minimamente dubitato – mi aveva condotto in un meandro sconosciuto. […] Tolsi la maschera e cercai di orientarmi. A due metri circa sott’acqua, si apriva una stretta galleria, che in qualche punto doveva diramarsi verso il lago Boegan da una parte, verso la caverna Lindner, dall’altra. Si trattava dunque di trovare la diramazione giusta. Il problema era tutto lì … Ma come trovare questa diramazione, come individuarla in quel labirinto di fenditure tutte maledettamente uguali, dove, anche se dei segni riconoscibili ci fossero, sarebbero spariti nella opacità inesorabile di quel torbidume che l’occhio era impotente a penetrare? Come trovare la strada, quando era necessario procedere a tastoni, ciecamente, in un mondo senza forma, senza direzione, senza suono …?.”

Nonostante i continui rischi corsi dagli esploratori subacquei, tutte le situazioni – anche quelle più pericolose – furono comunque risolte per il meglio. Leggendo le descrizioni fatte da Maucci, potrebbe sembrare che l’ambiente ostile e le varie avversità avessero gravato notevolmente sull’animo degli uomini coinvolti nelle esplorazioni. Invece, nonostante le tante difficoltà, gli speleologi furono sempre attratti da quella grotta e subirono costantemente il fascino sottile dell’esplorazione portata ai massimi livelli esprimibili a quei tempi.

Un passaggio scritto da Maucci, seppur con qualche tono enfatico, evidenzia chiaramente lo spirito di allora:

“Infagottato nella tuta bagnata e lacera, i piedi coperti di fango, le mani incrostate di limo viscido, il volto aggrondato di sudore, tutto il mio corpo sembrava esprimere l’estrema e miserevole pietà di una fatica cui era negato perfino il conforto della serenità del cielo. Le dita aggranchite annaspavano sull’irta roccia corrosa, il petto si sollevava nell’ansito del respiro affannoso … ma l’animo mio non si sentiva chiuso sotto quelle volte di rupe. L’animo erompeva superbo, ed io mi sentivo libero e vivo, e la vita pulsava in me tanto più forte quanto più la esponevo sul vuoto nero degli abissi. E la mano accarezzava quelle rocce aguzze, scorreva lieve sul duro freddo della pietra, e si soffermava a sentire la vitalità geologica di quegli strati millenari che non ci sono nemici, oh no, sono parte di noi, della nostra essenza legata al lento divenire della terra”.

Sono queste ultime parole quelle che possono meglio caratterizzare la figura di Walter Maucci: uno studioso attento e preparato che subiva il richiamo delle rocce e degli eventi geologici, un esploratore che non esitava a dare il massimo per penetrare nei segreti che la pietra gelosamente custudisce.

Anche se in parte dimenticato, bisogna riconoscere che Maucci è stato una delle più belle ed importanti figure della speleologia italiana del secolo scorso e la sua opera merita sicuramente la necessaria considerazione ed il dovuto riconoscimento.

– Visita la pagina a lui dedicata, a cura di Paolo Guglia.

– Puoi scaricare dalla nostra biblioteca il libro “Walter Maucci (1922-1995): speleologo scienziato triestino. Scritti memorialistici e celebrativi”,
   di Rino Semeraro e Sergio Dambrosi (2009)